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Masini Daniele 3285906674

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Masini Daniele

Nicola Micieli:   Antologica Forlì -1996       Antologica Cesena - 1996

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Mostra Antologica 1996 Forlì

C' e una fase cruciale, intorno al 1988, nella ricerca pittorica di Daniele Masini. E uno snodo critico, nel senso proprio di un'incrinatura che fa da spartiacque tra un prima e un poi chiaramente distinguibili, per temperatura espressiva e, in parte, soluzioni stilistiche, per quanto, a un'indagine focalizzata sugli elementi istitutivi del linguaggio, le due stagioni si rivelino collegate da un sistema di vasi comunicanti che garantiscono la continuità dell'esperienza creativa.
Masini è artista conseguente nella sua ricerca. Lo è in virtù della sostanza ideologica di cui si nutre il suo "mestiere" di pittore, e ancor or prima per le articolazioni strutturali, le analogie formali, le corrispondenze poetiche che rendono organico lo sviluppo dell'opera nel suo insieme. Di periodo in periodo, il suo percorso si è dipanato senza apprezzabili scarti o divagazioni. Tanto meno rovesciamenti di fronte. Per vene sotterranee, difatti, anche nella nuova mitografia e anzi nell'epifania dell'uomo rigenerato, che occuperà la scena dallo scorcio degli anni Ottanta al presente, pur essa non meno drammatizzata e a suo modo fastosa della precedente, filtrano i grovigli esistenziali, le tensioni intellettuali, gli umori e le melanconie di sempre. Persino le cupezze tragiche. Il tutto raccontato, però, con un gusto inedito del figurar metaforico nelle cui fiorite immagini si attenua la forza d'urto di una figurazione dilatata e talora iperbolica; evidentemente congeniale all'artista forlivese, se non è stata mai smentita nel corso di oltre un ventennio, e i cui simboli sono leggibili in chiave proiettiva, come concrezioni di un vissuto per molti aspetti conforme a una visione dell'arte modernamente romantica, più che estetizzante.
Certo, dopo l'88 qualcosa cambia nello statuto visivo e nel registro espressivo dell'immagine. Il clima e l'intonazione del racconto non sono più i medesimi. E come se si fossero placate la concitazione e l'eloquenza del dettato pittorico.
La partitura rimane ampia e persino improntata a una certa estenuazione del rapporto tra la figura e lo sfondo, tra la plastica evidenza della figura e lo spazio solitamente edificato che la contiene.
(Il gigantismo costituisce - lo ricordo a margine un dato di continuità linguistica con il passato e un tratto caratterizzante la personalità artistica di Masini, in parte dovuto alla sua formazione e professione di scenografo, desumibile anche dal gusto di impostare la forma pittorica su scala monumentale, su ampie superfici che ambirebbero una destinazione parietale).
A una rapida comparazione dei due periodi, si rileva che il ritmo sincopato e l'eccitazione visiva diffusamente riscontrabili nelle precedenti composizioni, cedono col nuovo corso a un diverso e altrimenti pausato respiro Le distensioni e le contrazioni della tessitura pittorica si alternano ora più fluenti, come l'arsi e la tesi che imprimono fisiologica vitalità alla struttura metrica del verso.
Anche la materia, per quanto non pacificata, si dispiega più liquida e sicura sulla superficie della tela, marcata a zone precisamente dislocate nella topologia dell'immagine. Ricordo che la materia si presentava, un tempo, come sommossa da una forza endogena che la rendeva inquietante. Talora appariva aggrumata e non priva di una sua barbarica sontuosità, dovuta non tanto alla densità degli impasti, che mai raggiungono la sedimentazione tipica dell'informale, quanto all'uso sistematico delle velature, condotte autonomamente o in stretta connessione con la tecnica ernstiana del frottage. Come dire la strategia del nascondere e dello svelare, con sapiente ambiguità visiva, particolari degli strati sommersi che determinano l'animazione profonda della forma e consentono allo sguardo di insinuarsi nelle latebre della realtà, a cogliere aspetti sommersi e imprevedibili dell'essere con una perscrutazione sensibile a ogni minimo sussulto della materia.
Un ulteriore elemento di novità è la concertazione cromatica che risulta più attenta ai valori tonali, ottenuta attenuando i contrasti chiaroscurali e timbrici specie nell'uso, che chiamerei veneto, di profilare in controluce le figure, in tal modo staccandole dai fondali sia indeterminati sia concepiti come spaccati paesistici dagli orizzonti nettamente segnati
dalla morfologia tormentata quanto i volti dei solenni personaggi che dominano la scena.
Masini dà luogo, inoltre, a una tessitura pittorica più rada e morbida stemperando la luce corrusca che animava di mille chiazze, striature, barbagli le corazze degli enigmatici cavalieri protagonisti di un'epopea apocalittica, guerrieri alieni dai volti proteiformi, nelle cui carni tumefatte si dischiudono occhi segnaletici d'una fissità e chiarità allarmanti, in quanto estranee alla veemenza, più che al dinamismo, e alla tenebrosità delle titaniche figure munite contro un nemico sconosciuto, forse un oscuro alter ego che non si rivela, come i Tartari all'orizzonte lontano del deserto immaginato da Buzzati.
Un rilevante mutamento interesserà, infine, i cavalieri in persona, intendo nella concretezza fisica dei loro corpi e volti. Parlo di corpi e di volti, ma penso all'impossibilità di definire con certezza la natura e la fisionomia di quelle maschere nelle quali sembianze umane e tratti bestiali si incontrano e si fondono, generando ibridi da laboratorio genetico o da gabinetto criminale lombroso siano, più che aberrazioni della natura degne di un atlante medievale dei mostra o di una secentesca Wunderkammer di meraviglie arcimboldesche.
Ebbene, deposte le spoglie coriacee e riattivato il potenziale mutageno e, dunque, la malleabilità plastica prima inibita, come crisalidi che dispiegano le ali avendole districate dai serici involucri, intorno all' 86 gradatamente i corpi proteiformi dei cavalieri si disporranno a concludere la loro evoluzione: vorrei dire, la filogenesi della specie già avviata e leggibile nel loro ibrido aspetto di anfibi rettili uccelli, infine approdando all'uomo, in modo inequivocabile: allo statuto corporale e all'identità culturale dell'uomo. Ossia a quel coacervo di oscure pulsioni e di illuminate intuizioni creative, di istinto belluino e di sublime sentimento dell' essere, di potenza distruttiva e di talento progettuale, in cui consiste l'unicità dell'umano rispetto all'innumerabile varietà delle creature: un caleidoscopio di manifestazioni che Masini aveva già messo in scena nei suoi cicli pittorici, sotto specie poematica di grandiosa, anacronistica allegoria cavalleresca, quasi una balzacchiana commedia umana imbandita con l'ottica deformante d'un neoromantico secentista e gotico. A questo punto, per ulteriori e più dettagliate informazioni circa gli esiti della ricerca masiniana dallo snodo critico dell'88 a oggi, conviene rimandare al catalogo della mostra a questo periodo consacrata, e che si apre a ruota della retrospettiva forlivese di cui al presente catalogo. Alle anticipazioni sinora fornite aggiungerei solo qualche osservazione, che mi sembra indispensabile al fine di concludere, in questa sede, l'analisi delle fasi in cui si sviluppa l'opera di Masini, dagli esordi nei primi anni Settanta all'88, appunto.
In particolare, sottolineerei tra le evidenze del nuovo periodo, il senso complessivo d'ordine che promana la partitura. La quale, sul piano visivo, in molti dipinti appare alquanto semplificata, rispetto ai macchinosi impianti poliprospettici precedenti, sovente configurandosi come un semplice corpo, o una sua porzione, che occupa buona parte dello spazi o disponibile, talora in una situazione evidentemente conflittuale e anzi antagonista, come nelle anguste vasche di immersione che delimitano uno spazio claustrofobico. Altrove la partitura è più composita, e anche complicata, rappresentando una sorta di accumulazione di figure in blocchi monumentali, all'apparenza monolitici e inpenetrabili, in realtà dalla struttura interna molto articolata e leggibile nel suo funzionamento ritmico. Il senso dell'ordine cui accennavo, non è novecentista. Intendo dire che Masini non introduce una disciplina formale ispirata a una qualche mitografia umanistica o archeologia classicista fuori del tempo. Vero è che in parte esso appare indotto da una lettura sui generis della metafisica, alcuni dei cui luoghi iconografici qua e là risultano citati e ben riconoscibili. Ma la Musa abitatrice dei recinti consacrati all'enigma è ancora tutta impregnata di spiriti romantici e simbolisti, se non anche di più diretta accezione espressionista. Allorchè abbandonerà la città silente, sul tappeto di luce che guida i suoi passi ciechi, la Musa acefala (Esili dell 'immaginario, 1991) recherà nel petto, e saranno un fuoco sommesso e tenace che brucia senza fiamma, gli echi degli antichi umori e delle tensioni che Masini enfatizzava nel suo visionario epos cavalleresco. Di quel fuoco si alimenterà la pittura degli anni Novanta, e se ne coglierà la presenza non già per segni pirotecnici manifesti, ma sotto specie di temperatura espressiva di un'immagine che si presenta sostanzialmente disciplinata, sotto il profilo formale, appunto informata al senso d'ordine percepibile cui approda la pittura di Masini e che pertiene, dunque, alla struttura della forma derivando, a ben vedere, dal sovrapporsi di una griglia analitica cubista sull'impianto visivo metafisico già individuato. Si compie in questo modo una contaminazione linguistica da grande laboratorio pittorico. Sullo scorcio degli anni Ottanta, combinando stilemi diversi con intuitiva sapienza stilistica, Masini perviene a una sintesi che gli consente di mantenere attive le matrici antiche del proprio linguaggio visionario (penso soprattutto al protoespressionismo dei Grunewald e dei Cosmè Tura, al manierismo dei Giulio Romano e dei Beccafumi, al protoromanticismo tenebroso di Goya e a quello onirico di Fùssli), declinandole in una chiave moderna alla cui formulazione non sono estranee le lezioni di Picasso e di Bacon, sul versante cubista ed espressionista, di Magritte, di Ernst, di Savinio, di Oelze su quello surrealista. Ora, è importante notare che tale alchimia è stata resa possibile dalla riflessione intervenuta proprio con le opere che, nello snodo critico della ricerca di cui si è detto, esemplificavano quasi in termini didattici la sinergia delle funzioni contrapposte nella prassi creativa e, contestualmente, nel comune esercizio della vita quotidiana. Dico la pulsione profonda e l'automatismo dell'Es, luogo dell'istinto rappresentato dall'ammasso di materia biologica tendenzialmente antropomorfa, che si presenta anche sotto forma di groviglio planante da spazi siderali, e 1' operatività consapevole e selettiva dell' Ego, luogo della ragione simboleggiata da un prismatico cristallo che immaginiamo dotato di virtù essenziali e di poteri ermetici, se sembra provenire dalle viscere della terra, come talismano, una pietra filosofale. Dall'incontro e dalla compenetrazione simbiotica di questi due vettori in viaggio nelle estensioni egualmente limitate del cielo e della terra, e nelle dimensioni analogamente estese della psiche, scaturisce la scintilla che vivifica l'uomo. Ogni volta che l'evento si verifica, nella storia degli individui o in quella dei popoli e delle civiltà, si ripete l'atto della creazione dell' uomo dall' indistinto, e ricomincia la ricerca faticosa ed esaltante dei valori che rendono unica la vicenda umana. C'è una sacralità nell'espletamento del rito. Non a caso Masini concepisce in forma di totem il frutto della fatidica congiunzione, configurandolo dapprima come monolito di grande imponenza statuaria, quindi come un organismo plastico sempre più differenziato che gradatamente assume, quasi fosse delineato dallo scalpello dello scultore, la conformazione dell'uomo. Siamo davanti a una natività che rilancia il ciclo vitale, e dunque presuppone al suo epilogo un ritorno all'imo, nell'indistinto tutto.
Mi pare che l'interno percorso compiuto sin qui da Daniele Masini possa riassumersi nella nozione ciclica del sorgere e del tramontare, del nascere e del perire che interessa Sun Ra, il sole divini divinizzato, non meno dell'ultimo filo d'erba che trema al vento caldo del deserto, e dell'uomo viaggiatore indifeso nell'astronave alla deriva nell'universo che è il mondo. Nell'arco breve tra i due eventi si colloca la ricerca dell'identità dell'umano. Ricerca dolorosa e ispirata, cosparsa di cadute e di rinnovati slanci, attraverso il mito e la storia, l'immaginario collettivo e la psiche individuale per innescare il processo che porta all'autoidentificazione, ossia al riconoscimento e alla cognizione di sé come momento provvisorio di un processo evolutivo che coinvolge la specie, ma è dall'individuo vissuto nella piena cognizione della precarietà dell'essere. L'opera di Masini e una grandiosa allegoria della precipitazione angelica dall'empireo cielo, e della resurrezione possibile dalle latebre della terra. C'è un alternarsi di soffocante claustrofobia e di improvvise espansioni liberatorie, di spazi chiusi nella sequenza delle immagini a tratti asciutte e incalzanti nella loro impietosa crudeltà esistenziale, a tratti enfatizzate e retoriche nel loro tendere a un'emblematica coralità di alta intonazione tragica. Certamente Masini compie da pittore il viaggio alla ricerca dell'identità angelica perduta, insomma la discesa iniziatica e purgatoriale nelle profondità della psiche, nella quale ogni orrore perpetrato dall'uomo nella sua storia, da Caino all'ultima mano che si levi in questo momento a violare l'innocenza, ha lasciato una stigmate indelebile. Intendo dire che l'itinerario labirintico che conduce per mille involuzioni alla luce, si prefigura come metafora dell'arte, forma intuitiva di conoscenza che possiede la straordinaria capacità di accedere, visionariamente, a dimensioni dell 'essere che sfuggono agli strumenti analitici cui si affida la scienza. Ma per giungere a tanto l'artista deve farsi veggente, vibrare in sintonia con lo spirito del mondo. Come uno sciamano. Come il sacerdote di un culto iniziatico. Ebbene, per disporsi all'ascolto, Masini ha attraversato i territori interdetti, evocando i mostri latenti nel profondo e tentando di controllarne la terribilità mediante l'esorcismo della rappresentazione pittorica. La prima stazione del viaggio sono non a caso le Cripte che accolgono i resti disseccati e come calcinati dell'uomo. Siamo intorno al '74. Il giovane pittore, recuperando forse un certo spirito gotico appartenuto al realismo che fu detto esistenziale, circa un decennio prima a Milano, da Guerreschi a Bodini a Romagnoni, pone con acuta urgenza il problema dell'uomo, che gli appare in bilico sull'abisso, tra l'infinito nulla del prima e del poi, oppresso dal male nel breve intervallo del suo confino sulla terra. Non a caso il giovane pittore aveva esordito nel '73, a Forlì, con opere grafiche piene di pathos anche nei loro riferimenti maledettistici sinceramente intese alla dolente e corale rappresentazione del destino umano nella passione del Cristo che sulla croce si fa strumento di redenzione. Una discesa nello spazio chiuso della cripta, a puntare riflettori sbiancanti sulle reliquie dell'uomo, è dunque l'avvio dell'itinerario pittorico di Masini. Nella stazione successiva lo spazio chiuso della cripta si trasforma in una sorta di nicchia o di armatura - e dunque un contenitore difensivo e minaccioso - nella quale sembra conservata non più una reliquia, ma una cellula vivente. E direi meglio un nodo fecondato, a giudicare dall'immaginazione visionaria eccitata e persino delirante che scatta nel pittore alla scoperta di quel nucleo pulsante, a quel germinare inatteso di un baudelairiano fleur du mal che sembra annunciare l'avvento di una nuova età, affascinante e terribile per la promessa di un radicale rinnovamento che non può realizzarsi che sulle macerie dell'esistente. C'è come un presagio millenaristico nella prefigurazione di una creatura nella quale si rinnoverà la stirpe degli uomini. Ciò spiega l'ambiguità della raffigurazione di quel Demiurgo, insieme bestia immonda e minacciosa ed eroe solitario investito di un destino tragico e grandioso. La duplice connotazione traspare dall'aspetto ripugnante della maschera bestiale e, a un tempo, dall'imponenza del personaggio titanico, che Masini dipinge con inquadrature regolarmente dal basso, a mezzo busto e in tre quarti, e su registri cromatici che vanno dalle terre bruciate ai rossi sonori. I referenti iconografici più o meno riconoscibili sarebbero innumerevoli, a volerli enumerare, da Dùrer a Velàzquez, da Bosch all'Arcimboldo. Ma l'esercizio risulterebbe retorico per il fatto che Masini consapevolmente si abbandona a ogni suggestione nel suo delineare un personaggio straordinario che si è imposto alla sua fantasia come un archetipo di indefinita impronta figurale, e dunque suscettibile di assumere ogni aspetto. Tanto più che ben presto si appalesa la proprietà forse più significativa di questa creatura complessa e intrigante: la sua capacità metamorfotica, e forse meglio direi la sua natura mutagena. Nel suo processo evolutivo, difatti, egli muta d'aspetto e si permuta in un essere vieppiù composito, un ibrido che trattiene sempre alcuni tratti o caratteri della creatura attraversata. E in questa virtù evolutiva la singolarità e la potenza del personaggio, che Masini dipinge con grande sensibilità e direi con una maestria pittorica degna degli antichi, nella fase che precede l'introduzione dell'armatura da torneo e la trasformazione del personaggio, già corazzato di ferri da campo, in stranito cavaliere errante. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, insomma, con il mostruoso Demiurgo il pittore ha un rapporto fortemente conflittuale, tuttavia diretto, di attrazione-repulsione, un'ambivalenza psicologica che ricadrà anche sulla struttura della personalità del personaggio. Il quale appare cupo e minaccioso, quando nasconde il volto nelle pesanti maschere metalliche, lasciando tuttavia in vista la specola dell'occhio, ma anche incredibilmente allusivo e quasi mondano, per via dei raffinati velari rossi di cui il pittore l'agghinda con patetica "civetteria". Certo in questo personaggio c'è un'oscura consapevolezza tragica dell' ineluttabilità della morte cui dovrà approdare, perchè si compia il suo destino messianico, di rifondatore dell'umanità che egli reca iscritta nel suo patrimonio genetico, e la cui storia evolutiva sta ripercorrendo nella condizione mutagena del proprio corpo. Ecco, dunque, la complessità della sua figura. E la ragione, implicitamente, della lettura immaginosa ed epica che ne fa Masini nel corso degli anni Ottanta, quando imbandirà un fastoso torneo di cavalieri Demiurghi replicanti, su cavalli loro consimili, impegnati in imprese inenarrabili e senza apparenti obiettivi militari o ideali, salvo un'imprecisata autodifesa che induce l'allerta e l'aggressione. Ossia una dispersione di energie che si traduce nel mirabolante sfarfallio delle luci sulle corazze lucide, nell'obliqua grandiosità degli impianti visivi che fissano l'impeto dei movimenti, nell'estenuazione manieristica delle strutture formali in cui si produce un'epicità squisitamente esibizionistica.
Si mette in atto, a ben vedere, una sorta di strategia dell'ostentazione ritualizzata. La segnaletica gestuale e la mimica corporale enfatizzate, esprimono l'aggressività, un meccanismo molto praticato nel mondo animale per minacciare l'avversario e indurlo a desistere, evitando uno scontro cruento. Ecco, giusta la componente belluina della loro natura di mutanti, con la magniloquenza degli atti e dei gesti e con l'appariscente solidità dei paramenti metallici, i nostri cavalieri ostentano potenza dissuasiva: utile deterrente alle ambizioni altrui. Va da sé, peraltro, che a prescindere da questa o da analoghe interpretazioni dei confronti, delle disfide, delle parate, delle scorribande cavalleresche su sfondi semplicemente campiti o in paesaggi partecipi dell'animazione fantomatica da cui sono posseduti i nostri eroi, Masini in questo periodo assecondi, sottolineando e amplificando oltre misura la spettacolarità della scena, una propria inclinazione all' iperbole visiva, alla proliferazione barocca delle strutture formali nello spazio, allo sguardo deformante e persino ipertrofico dei manieristi. Si guardino i tagli e le inquadrature delle immagini più incombenti, per intendere l'intimo piacere funambolico, che vorrei dire cinematografico, dello sguardo del pittore. Il quale vorrebbe cogliere e fissare l'azione nel suo farsi, ponendosi al suo interno e restituendola in tempo reale. Molti riferimenti colti sono stati fatti per stabilire alcune ideali paternità dei cavalieri masiniani. Penso, ovviamente, a Paolo Uccello, a Piero della Francesca, al Mantegna, ma potrei seguitare con una legione di cavalieri fieramente ergentisi in groppa ai loro nobili destrieri. Basterebbero il Verrocchio e Donatello? Ma una volta evocati, per riconoscere una credibile consonanza ditemi iconografici, occorre poi avvisare circa l'improbabilità di un'appartenenza rinascimentale -più volte avanzata dalla critica - del linguaggio di Masini. Il quale semmai, in quanto campione di dismisura e di affabulazione metaforica, ama piuttosto i secoli vivificati dalla crisi dei codici già trionfanti. Ad esempio il manierismo e il barocco, sulle cui svisature formali ed evoluzioni spaziali innesta suggestioni dalla tradizione medioevale dei fasti e dei trionfi, rinnovata nell'apparecchiatura cinquecentesca e seicentesca delle feste teatrali e carnascialesche, con il relativo corredo araldico ed emblematico.
Quando esegue le sue pale del Viaggio attraverso la memoria ( 1984) dedicate al Pordenone, Masini aveva già realizzato ampie composizioni della sua epopea cavalleresca. Nel dittico egli tuttavia tocca, per la destinazione pubblica delle opere e per l'implicito e certo non competitivo confronto indotto dalla presenza nominale del maestro manierista, sicuramente
il culmine del suo far grande nel senso delle superfici oltre che del respiro strutturale degli impianti. Altre opere impegnative seguiranno, ma vorrei a questo punto osservare come con il "viaggio" evocativo, in fondo, anche la vicenda evolutiva del cavaliere Demiurgo tocchi l'acme dell'esaltazione eroica, raggiunga la massima visibilità nelle spoglie del simulacro corporale e della maschera umana, subisca la più profonda influenza formatrice della cultura figurativa, che è pur sempre il medium privilegiato della creazione artistica. D'ora in avanti le tonalità cromatiche si abbruniranno, si placherà il moto dei tornei. I cavalieri si spoglieranno di pettorali e cimieri e ritorneranno pedestri. Direi anzi propriamente terrestri a consumarsi di desiderio per una libertà del cielo e del volo ancor precluso, ma non per molto, al loro statuto di mutanti. Il gioco è sempre dell'altalena tra la terra e il cielo, la luce e le tenebre, il vuoto e il pieno. È il gioco degli opposti complementari e dialettici, del maschile e del femminile che condurranno a compimento l'opera della creazione. Il Demiurgo ha generato in sé il proprio doppio femminile. Avvolto in un velo rosso che ne esalta l'imponenza eroica, il Demiurgo ermafrodito (diverrà un angelo, forse?) avverte che sta per conchiudersi, dopo la discesa agli inferi, il suo itinerario purgatoriale. Malinconia (1984) è la disposizione d'attesa di uno spirito ormai rigenerato e intriso d'umano, pronto all'incontro con la pietra che dall'infinitudine del profondo viaggia verso la terra, ove si compirà il rito della congiunzione feconda, apportatrice di vita.

Nicola Micieli

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